KATHY REICHS
CENERI
(Bare Bones, 2003)
Dedicato a quanti lottano contro il traffico
di cistifellee d'orso, e in particolare a:
The United States Fish and Wildlife Service
The World Wildlife Foundation
The Animals Asia Foundation
Ringraziamenti
Voglio esprimere la mia gratitudine al capitano John Gallagher, all'investigatore John Appel (in pensione) dello Sheriff's Department, contea di Guilford, North Carolina, all'investigatore Chris Dozier, Dipartimento di polizia della contea di Charlotte-Mecklenburg, e soprattutto a Ira J. Rimson, per i suggerimenti sul Cessna e sul traffico di droga.
Molte persone che lavorano per proteggere le specie a rischio di estinzione mi hanno generosamente regalato il loro tempo e le loro conoscenze. Un ringraziamento particolare va a Bonnie C. Yates, specialista forense, responsabile del gruppo Morfologia/Mammiferi, e a Ken Goddard, direttore, a Clark R. Bavin, National Fish and Wildlife Forensics Laboratory; a Lori Brown, assistente investigativo, e a Tom Bennett, funzionario locale responsabile, United States Fish and Wildlife Service; e all'agente Howard Phelps, a Carolyn Simmons e al personale del Pocosin Lakes National Wildlife Refuge. Siete voi a combattere in prima linea per salvare quanto non ci possiamo permettere di perdere, e noi tutti apprezziamo il vostro sforzo.
David M. Bird, ricercatore alla McGill University, ha fornito la sua consulenza sui volatili a rischio di estinzione. Randy Pearce e James W. Williams hanno condiviso le loro conoscenze sul gruppo dei melungeon del Tennessee. Eric Buel, ricercatore e direttore del Laboratorio di Scienze Forensi del Vermont, ha fornito la sua consulenza riguardo alla amelogenina. Michael Baden, e Claude Pothel mi hanno illuminata riguardo alle diatomee e alla morte per annegamento.
Il capitano Barry Faile, dello Sheriffs Department della contea di Lancaster, e Michael Morris, coroner della contea di Lancaster hanno risposto con pazienza alle mie domande. Michael Sullivan mi ha accolta presso la struttura dell'Istituto di medicina legale della contea di Mecklenburg. Terry Pitts ha dato alcuni suggerimenti riguardo ai seminterrati delle imprese di onoranze funebri. Judy H. Morgan mi ha permesso di essere precisa nella descrizione di Charlotte e delle sue strutture.
Ho molto apprezzato il sostegno del rettore James Woodward della University of North Carolina-Charlotte. Merci ad André Lauzon, chef de service, e a tutti i miei colleghi del Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale.
Mille ringraziamenti a Jim Junot per le pazienti risposte alle mie infinite domande.
Grazie a Paul Reichs per le sue osservazioni al mio manoscritto. E al giro di amici e conoscenti per i suggerimenti riguardo al titolo e altre minuzie.
Grazie alla mia incredibile e fantastica editor, Susanne Kirk, che ha reso scorrevole il mio testo.
Un ringraziamento speciale alla mia agente supersonica, Jennifer Rudolph Walsh. Hai consegnato a questo mondo Wyatt Z. lo stesso giorno in cui io ho consegnato Ceneri. È stato un anno eccellente.
1
Mentre recuperavo i resti del bambino morto, l'uomo che avrei ucciso macinava chilometri diretto a nord, verso Charlotte.
Ma all'epoca non potevo saperlo. Non avevo mai sentito il nome di quell'uomo e non sapevo nulla del raccapricciante gioco a cui stava giocando.
In quel momento ero concentrata su ciò che avrei detto a Gideon Banks, su come gli avrei spiegato che il suo nipotino era morto e che la figlia minore era fuggita.
Le mie cellule cerebrali avevano battibeccato per tutta la mattina. Tu sei un'antropologa, suggerivano quelle deputate alla logica. Visitare la famiglia non è compito tuo. Ci penserà il medico legale a ufficializzare le tue conclusioni, e il detective della Omicidi riferirà la notizia. Con una telefonata.
Ottime argomentazioni, ribattevano le cellule della coscienza. Ma in questo caso è diverso. Perché tu conosci Gideon Banks.
Con tristezza infinita inserii i pochi frammenti ossei recuperati nella vaschetta, richiusi il coperchio e scrissi il numero d'inventario sulla plastica. C'era così poco da esaminare. Era stata una vita così breve.
Mentre chiudevo il contenitore nell'armadietto delle prove, la memoria mi regalò un'immagine di Gideon Banks: viso scuro e rugoso, capelli grigi e crespi, voce roca.
L'immagine si allarga.
Un uomo in camicia a quadri di flanella che passa lo straccio su un pavimento di piastrelle.
La memoria aveva riproposto la stessa immagine per tutta la mattina. E nonostante i miei sforzi di richiamarne altre, l'immagine continuava a ripresentarsi.
Gideon Banks e io avevamo lavorato alla University of North Carolina di Charlotte per quasi vent'anni, prima che lui andasse in pensione, tre anni addietro. E per tutto quel tempo lo avevo regolarmente ringraziato per come teneva pulito il mio ufficio e il laboratorio con biglietti d'auguri per il compleanno e un regalino a Natale. Di lui sapevo che era scrupoloso, educato, profondamente religioso e affezionato ai suoi figli.
E che dove passava lui, tutto splendeva.
Nient'altro. Le nostre vite si erano incrociate solo al lavoro.
Finché Tamela Banks non aveva gettato il suo bimbo appena nato in una stufa a legna ed era scomparsa.
Entrai in ufficio, accesi il portatile e sparpagliai i miei appunti sulla scrivania. Ma avevo appena iniziato a scrivere la mia relazione, quando una sagoma riempì il vano della porta aperta.
«Una visita a domicilio non rientra fra i tuoi compiti.»
Premetti SALVA e alzai lo sguardo.
Il medico legale della contea di Mecklenburg indossava il camice verde da sala operatoria. Una macchia sulla sua spalla destra ricordava la forma del Massachusetts in rosso scuro.
«Non mi crea problemi.» Già, come non mi creava problemi un foruncolo in suppurazione sulle natiche.
«Mi fa piacere andare a parlare con lui.»
Tim Larabee poteva essere un bell'uomo, non fosse stato per quella sua mania di correre. L'allenamento quotidiano per la maratona gli aveva avvizzito il corpo, diradato i capelli e incartapecorito il viso. La sua eterna abbronzatura sembrava scurirsi intorno agli zigomi e agli occhi, sempre troppo infossati. Occhi che adesso esprimevano preoccupazione.
«Insieme a Dio e alla Chiesa battista, l'unico punto di riferimento di Gideon Banks era la famiglia» dissi. «Questa notizia lo sconvolgerà.»
«Forse non sarà così dura come sembra.»
Gli lanciai un'occhiataccia. Ne avevamo parlato meno di un'ora prima.
«D'accordo.» Larabee alzò la sua mano vigorosa. «Sarà durissima. Sono sicuro che il signor Banks apprezzerà il tuo sforzo. Con chi vai?»
«Skinny Slidell.»
«Si direbbe proprio il tuo giorno fortunato.»
«Volevo andarci da sola, ma Slidell non ha accettato un no come risposta.»
«Skinny? Non ci credo.» Finta aria sorpresa.
«Credo che Skinny speri in qualche riconoscimento speciale.»
«Io credo che Skinny speri di finire a letto con te.»
Gli lanciai una penna. Lui riuscì a parare.
«Stai attento, Larabee.»
Il medico legale uscì. Lo sentii aprire la porta della sala autopsie e poi richiuderla.
Controllai l'ora. Le tre e quarantadue. Slidell sarebbe arrivato nel giro di una ventina di minuti. Le mie cellule cerebrali si unirono in un collettivo imbarazzo. Su Skinny, nel mio cervello l'accordo era generale. Spensi il computer e mi appoggiai allo schienale della sedia.
Che cosa avrei detto a Gideon Banks?
Una vera sfortuna, signor Banks. Sembra proprio che sua figlia minore abbia partorito, avvolto il piccolino in una coperta e poi l'abbia usato per accendere il fuoco.
Davvero fantastico, Brennan.
Le cellule della vista inviarono una nuova immagine mentale. Banks che prende una fotografia da un vecchio portafoglio di cuoio. Sei faccine scure. Zazzera corta per i maschietti, codini per le bambine. Tutti con denti troppo grandi per i loro piccoli sorrisi.
L'inquadratura si allarga.
Un uomo anziano sorride, sicuro che tutti i suoi figli andranno all'università.
È così?
Chissà.
Mi sfilai il camice e lo appesi al gancio dietro la porta.
Se per caso i giovani Banks avevano frequentato la University of North Carolina di Charlotte mentre io insegnavo in facoltà, non dovevano avere un grande interesse per l'antropologia. Ne avevo conosciuto solo uno, Reggie, nato a metà della nidiata, perché aveva frequentato il mio corso sull'evoluzione umana.
Le cellule della memoria ricordarono un ragazzo amante delle bande di periferia, berretto da baseball con la tesa al contrario, occhiali a specchio calati su sopracciglia a lama di rasoio. Ultima fila in aula. Intelletto dieci, impegno sei meno meno.
Quanti anni erano passati? Quindici? Diciotto?
All'epoca lavoravo con moltissimi studenti. Le mie ricerche riguardavano principalmente i morti antichi, e insegnavo a diverse classi di laureandi. Bio-archeologia. Osteologia. Ecologia dei primati.
Un mattino, una laureata in antropologia si era presentata nel mio laboratorio. Era diventata detective della Omicidi presso il Dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg e mi aveva portato un sacchetto di ossa recuperate da una buca poco profonda. Chissà se la sua ex insegnante poteva stabilire se per caso si trattasse dei resti di un bambino scomparso?
Avevo potuto. Lo erano.
Quel caso era stato il mio primo contatto con il mondo delle discipline forensi. Oggi tengo solo un corso in università, in antropologia forense, e faccio la spola tra Charlotte e Montréal lavorando come antropologa per entrambe le giurisdizioni.
All'epoca la geografia era un problema, quando insegnavo a tempo pieno e facevo le acrobazie tra il calendario accademico e i miei impegni di lavoro. Oggi, a parte il periodo in cui tengo il corso, mi muovo secondo necessità. Qualche settimana a nord e qualche settimana a sud, con possibilità di estendere il periodo se il lavoro ai casi lo richiede, o se devo rendere qualche testimonianza in tribunale.
Perché North Carolina e Québec? È una storia lunga.
I miei colleghi di università definiscono quel che faccio «antropologia applicata». Utilizzando la mia conoscenza delle ossa, ricavo informazioni utili da cadaveri e scheletri, o da parti di essi, troppo compromessi per eseguire l'autopsia. Sono io la persona che dà un'identità ai decomposti, ai bruciati, ai mutilati, ai mummificati, agli scheletrizzati altrimenti destinati a una tomba anonima. In alcuni casi, stabilisco anche la modalità e l'epoca del decesso.
Del neonato di Tamela non era rimasto più di un pugno di frammenti carbonizzati. Un neonato è poca cosa in una stufa a legna.
Signor Banks, sono davvero spiacente di doverle dire che...
Il cellulare trillò.
«Ehi, dottoressa. Ho appena parcheggiato qui davanti.» Skinny Slidell. Dei ventiquattro detective che lavoravano per la Squadra Omicidi della Sezione anticrimine del Dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg, forse era quello che mi piaceva meno.
«Un attimo e sono giù.»
Ero rientrata a Charlotte da qualche settimana, quando la soffiata di un informatore aveva condotto alla sconvolgente scoperta nella stufa a legna. Le ossa erano arrivate a me. Slidell e il suo collega avevano stabilito che si trattava di un caso di omicidio, e avevano esaminato la scena del delitto, trovato i testimoni, raccolto testimonianze. Tutto portava a Tamela Banks.
Mi misi a tracolla borsetta e portatile e uscii. Mentre passavo, infilai la testa nella sala autopsie. Larabee alzò lo sguardo dalla sua vittima da colpo di arma da fuoco e agitò un dito in segno di avvertimento.
Per tutta risposta, io alzai platealmente gli occhi al soffitto.
Il complesso dell'Istituto di medicina legale della contea di Mecklenburg occupa una parte di un'anonima scatola di mattoni originariamente costruita per ospitare il Sears Garden Center. All'altra estremità si trovano gli uffici distaccati del Dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg. Privo di qualsiasi interesse architettonico, l'edificio è circondato da una quantità di asfalto sufficiente a coprire tutte le strade di Rhode Island.
Mentre uscivo dalla doppia porta a vetri, alle mie narici fu offerto un cocktail olfattivo di smog, gas di scarico e asfalto rovente. I muri dell'edificio irradiavano calore, così come i gradini che lo collegavano a un breve tentacolo del parcheggio.
Città torrida. Estate in città.
Una donna nera sedeva nel fazzoletto di terra di fronte a College Street, dietro un sicomoro, con le gambe elefantiache allungate sull'erba. Si stava sventolando con un giornale e discuteva animatamente con un inesistente avversario.
Un uomo con una maglia degli Hornets spingeva un carrello sul marciapiede, verso l'edificio pubblico. Si fermò quasi davanti alla donna nera per asciugarsi la fronte con l'avambraccio e per controllare la spesa nelle borse di plastica.
Quando si accorse del mio sguardo, l'uomo del carrello mi salutò con la mano. Io risposi allo stesso modo.
La Ford Taurus di Slidell aspettava in fondo alle scale, aria condizionata al massimo, finestrini fumé rigorosamente chiusi. Aprii la portiera posteriore, spostai una serie di raccoglitori, un paio di scarpe da golf da cui spuntavano delle cassette, due sacchetti del Burger King e un tubetto strizzato di crema solare, e finalmente riuscii a infilare il mio computer nello spazio che mi ero creata.
Erskine «Skinny» Slidell sicuramente si considerava uno della «vecchia scuola», anche se Dio solo sapeva a quale scuola si riferisse. Con i suoi Ray-Ban taroccati, l'alito di Camel, e la parlata monosillabica, Slidell era la caricatura autoprodotta e per niente ironica di un poliziotto hollywoodiano. Qualcuno mi aveva detto che nel suo lavoro era bravo, ma trovavo difficile crederlo.
Quando mi avvicinai all'auto, Slidell si stava ispezionando gli incisivi inferiori nello specchietto retrovisore, sulla faccia una smorfia da scimmia.
Quando sentì il rumore della portiera, trasalì e la mano schizzò allo specchietto. E mentre mi accomodavo sul sedile del passeggero, prese a regolare lo specchietto con la diligenza di un astronauta che si chiude lo scafandro.
«Dottoressa...» Slidell continuò a puntare i falsi Ray-Ban sul retrovisore.
«Detective...» Annuii, mi posai la borsetta davanti ai piedi e richiusi la portiera.
Quando fu finalmente soddisfatto dell'angolo di rifrazione, Slidell abbandonò lo specchietto, ingranò la marcia, attraversò il parcheggio e lasciò la College per imboccare la Phifer.
Proseguimmo in silenzio. Benché la temperatura all'interno dell'auto fosse inferiore di almeno dieci gradi rispetto a quella esterna, l'abitacolo era impregnato di uno strano miscuglio di odori. Hamburger e patatine stantie. Sudore. Bain de Soleil. La stuoia di bambù su cui Slidell parcheggiava la sua ampia schiena.
Lo stesso Skinny Slidell. Quell'uomo aveva l'odore e l'aspetto delle persone che vengono fotografate per i manifesti delle campagne contro il fumo. Nei miei quindici anni di consulenze per l'Istituto di medicina legale della contea di Mecklenburg, avevo già avuto il piacere di lavorare con Slidell diverse volte. E ognuna era stata peggiore della precedente. Quel caso prometteva di non fare eccezione.
La casa dei Banks si trovava nel quartiere di Cherry, leggermente a sud-est rispetto alla I-227, la circonvallazione interna di Charlotte. Cherry non aveva beneficiato della ristrutturazione di cui erano stati oggetto, per esempio, Dilworth ed Elizabeth, i quartieri confinanti a ovest e a nord che erano stati integrati nel tessuto cittadino e yuppificati. Ma, diversamente da altri quartieri centrali della città, Cherry non aveva tradito le sue origini e, oggi come allora, la comunità era formata in gran parte da neri.
Nel giro di pochi minuti Slidell superò un autolavaggio Autobell, svoltò a sinistra, lasciando Independence Boulevard per una stradina laterale, e poi a destra, in un'altra via secondaria. Querce e magnolie vecchie di trenta, quaranta e anche cento anni ombreggiavano modeste case di mattoni. Bucato steso sui fili. Irrigatori a pioggia in funzione o silenziosi all'estremità delle gomme per innaffiare i giardini. Biciclette di ogni tipo nei cortili e lungo i vialetti.
Slidell accostò a metà isolato, e indicò con il dito una casetta con gli abbaini che spuntavano dal tetto. Il rivestimento esterno era marrone, gli infissi bianchi.
«È un vero porcile, la topaia dove hanno arrostito il moccioso. In mezzo a tutta quella immondizia credevo di prendermi la scabbia.»
«La scabbia è portata dagli acari.» La mia voce era più fredda dell'abitacolo in cui mi trovavo.
«Esattamente. Non è da credere quanto è zozzo quel cesso di posto.»
«Doveva mettersi i guanti.»
«Proprio così. E un respiratore. Questa gente...»
«Secondo lei che persone sono, detective?»
«Persone che vivono come i maiali.»
«Gideon Banks è un uomo per bene che ha lavorato sodo per tutta la vita, e ha allevato sei figli da solo.»
«E la moglie? Batteva, per caso?»
«Melba Banks è morta di cancro al seno dieci anni fa.» Voilà. Adesso sapevo qualcosa del mio collega.
«Che culo.»
La radio gracchiò un messaggio che non riuscii a decifrare.
«Comunque questo non significa che questa gente deve andare in giro ad abbassarsi le mutande senza pensare alle conseguenze. E poi, dico, sei rimasta fregata? Nessun problema. Vai ad abortire.»
Slidell spense il motore e voltò i suoi Ray-Ban verso di me.
«O peggio per te.»
«Ci sarà un motivo che forse può spiegare ciò che ha fatto Tamela.»
In realtà non ero affatto convinta di ciò che avevo detto, visto che avevo passato l'intera mattinata a sostenere il contrario con Tim Larabee. Ma Slidell era così irritante che mi ritrovai a fare la parte dell'avvocato del diavolo.
«Bene. E probabilmente la ragazza verrà anche nominata madre dell'anno.»
«Ha conosciuto Tamela?» domandai, sforzandomi di non alzare la voce.
«No. E lei?»
No. Ma ignorai la domanda di Slidell.
«Ha conosciuto qualche altro membro della famiglia Banks?» chiesi.
«No, ma ho raccolto qualche testimonianza dai tizi della casa accanto, che si stavano facendo una pista mentre Tamela cremava il figlio.» Slidell mise le chiavi in tasca. «E scusi se non sono andato a prendere il tè con la signora e i suoi familiari.»
«Non ha mai avuto a che fare con i figli dei Banks perché sono stati cresciuti con valori e principi solidi. Gideon Banks potrebbe essere definito perfino un puritano...»
«Il bastardo che Tamela si scopava non si direbbe molto puritano, però.»
«Il padre del bambino?»
«A meno che Miss Tanga Rovente non si intrattenesse con qualcun altro mentre il paparino spacciava.»
«Chi è?»
«Si chiama Darryl Tyree. Tamela conviveva con Tyree in un angolo di paradiso a sud di Tryon.»
«Tyree spacciava droga?»
«Già. E non stiamo parlando di quelle che si trovano dal droghiere.» Slidell tirò la maniglia della portiera e uscì dall'auto.
Mi morsi le labbra ed evitai di replicare. Un'ora ed è tutto finito, Brennan.
Una fitta di senso di colpa. Finito per me, ma per Gideon Banks? E per Tamela e il suo bambino morto?
Raggiunsi Slidell sul marciapiede. Imprecò: «Gesù santo. Fa così caldo da bruciare il culo di un orso polare».
«Siamo in agosto.»
«E io dovrei essere in spiaggia.»
Sì, pensai. Sepolto sotto una tonnellata di sabbia.
Seguii Slidell lungo un vialetto coperto di erba appena tagliata, fino a una specie di verandina di cemento. Il detective premette un campanello arrugginito accanto alla porta d'ingresso, prese un fazzoletto dalla tasca e si asciugò la faccia.
Nessuna risposta.
Slidell bussò sul pannello di legno della porta a zanzariera.
Niente.
Slidell bussò ancora. Aveva la fronte imperlata di sudore e i capelli divisi in tante ciocche bagnate.
«Polizia, signor Banks.»
Slidell colpì la porta con il pugno chiuso. La zanzariera vibrò nell'intelaiatura.
«Gideon Banks!»
A sinistra della porta, il vetro di una finestra gocciolava per la condensa dell'impianto di condizionamento. In lontananza ronzava un tosaerba. Da qualche appartamento dell'isolato arrivavano le note di musica hip hop.
Slidell picchiò ancora contro la porta. Una mezzaluna scura spiccava sotto l'ascella della sua camicia grigia sintetica.
«C'è nessuno in casa?»
Il compressore dell'aria condizionata si mise in funzione. Un cane abbaiò.
Slidell scostò leggermente la zanzariera.
E iniziò a bussare direttamente sulla porta di legno.
Bam! Bam! Bam!
Poi urlò di nuovo la sua domanda.
«Polizia! C'è nessuno in casa?»
Dall'altra parte della strada una tendina si scostò e poi tornò al suo posto.
O l'avevo solo immaginata?
Una goccia di sudore mi scese lungo la schiena fino a raggiungere le altre che già mi inumidivano il reggiseno e la vita.
In quel momento il mio cellulare trillò.
Risposi.
E quella chiamata mi trasportò in un turbine di eventi che mi avrebbe portato a spezzare una vita.
2
«Tempe Brennan.»
«Cucù! Sono io!» Mia figlia mi salutò con una serie di versi gutturali. «Ricordi il nostro barbecue?»
«Katy, adesso non posso parlare!»
Voltai le spalle a Slidell e premetti il cellulare contro l'orecchio per sentire Katy nonostante la linea disturbata.
Slidell bussò di nuovo, questa volta con il piglio di un ufficiale della Gestapo. «Signor Banks!»
«Ti passo a prendere domani a mezzogiorno» disse Katy.
«Ma non so niente di sigari» replicai, cercando di parlare più piano che potevo. Katy voleva che l'accompagnassi a un picnic dato dal proprietario di un negozio di sigari e pipe. E non avevo idea del perché.
«Ma la carne arrosto ti piace, no?»
Bam! Bam! Bam! La porta vibrò.
«Sì, ma...»
«E non hai problemi con i complessini blues che suonano la nostra cara vecchia musica del Sud.» Katy sapeva essere molto insistente.
In quel momento la porta interna si aprì e una donna comparve dietro la zanzariera.
Slidell la superava di qualche centimetro in altezza, ma le mani della donna erano visibilmente più robuste.
«Gideon Banks è in casa?» urlò Slidell.
«Chi lo vuole?»
«Katy, ascolta, devo proprio andare» sussurrai.
«Ma Boyd non vede l'ora di andare a questo picnic! C'è una cosa di cui ti vuole parlare.» Boyd è il cane del mio ex marito. Le conversazioni con o su Boyd in genere portano sempre guai.
Slidell mostrò il distintivo.
«Allora ti passo a prendere a mezzogiorno?» Mia figlia riusciva a essere implacabile almeno quanto Skinny Slidell.
«E va bene» bisbigliai premendo il pulsante che concludeva la chiamata.
La donna studiò il distintivo con le mani sui fianchi, come un secondino.
Io infilai il telefono in tasca.
Gli occhi della donna scivolarono dal distintivo al mio compagno, e poi su di me.
«Papà sta dormendo.»
«Credo che sarebbe meglio svegliarlo» intervenni, sperando di neutralizzare Slidell.
«È per la storia di Tamela?»
«Sì.»
«Sono sua sorella. Geneva. Come la città svizzera.» Dal suo tono, si capiva che aveva ripetuto quella frase molte altre volte.
Geneva aprì la zanzariera. La molla produsse un suono che ricordava i tasti di un pianoforte.
Slidell si tolse gli occhiali da sole ed entrò. Io lo seguii e mi ritrovai in un piccolo soggiorno in penombra. Un arco conduceva in un corridoio, esattamente di fronte alla porta d'ingresso. Riuscii a vedere la cucina e una porta chiusa a destra, due porte chiuse a sinistra, un bagno in fondo.
Sei figli. Non fu difficile immaginare le lotte per accaparrarsi doccia e lavandino.
La nostra ospite lasciò cigolare la zanzariera al suo posto, richiuse la porta d'ingresso e si voltò verso di noi. La sua pelle aveva il colore del cioccolato amaro, e il bianco degli occhi ricordava i pinoli. Doveva avere circa venticinque anni.
«Geneva è un bellissimo nome» dissi, in mancanza di convenevoli migliori. «Sei mai stata in Svizzera?»
Geneva mi lanciò una lunga occhiata. Sul suo viso non lessi alcuna espressione. La fronte e le sopracciglia erano imperlate di sudore; i capelli erano raccolti dietro la nuca. L'unica finestra sembrava rinfrescare un'altra stanza.
«Vado a chiamare mio padre.»
Con un cenno della testa indicò un malconcio divano addossato alla parete destra del soggiorno. Sopra, le tende che schermavano la finestra pendevano flosce per il calore e l'umidità.
«Se volete sedervi.» Più che una domanda, era un'affermazione.
«Grazie» risposi.
Geneva si allontanò con un'andatura goffa e i pantaloncini impigliati tra le cosce. Una codina di cavallo le spuntava dietro la nuca.
Mentre Slidell e io occupavamo gli estremi opposti del divano, sentii una porta che si apriva e poi il suono metallico di una stazione radiofonica che trasmetteva musica gospel. Un attimo dopo la musica si interruppe.
Mi guardai intorno.
L'arredamento era modesto. Linoleum a terra. Poltrona reclinabile in finta pelle. Tavolini in finta quercia. Palme di plastica.
Ma era chiaro che qualcuno si occupava della casa con mano amorevole.
Le tendine con il volant dietro di noi profumavano di bucato. Un taglio sul mio bracciolo era stato ricucito con precisione. Ogni superficie brillava.
Le mensole e i ripiani dei tavolini traboccavano di fotografie incorniciate e di grezzi soprammobili. Un uccellino di creta dipinto a colori vivaci. Un piatto di ceramica con l'impronta di una manina e il nome REGGIE scritto sopra ad arco. Una scatola fatta con i bastoncini dei ghiaccioli. Decine di piccoli modesti trofei. Spalline e caschi racchiusi per sempre in plastica dorata. La fotografia di un tiro in sospensione. Di una palla a effetto.
Osservai le immagini più vicine a me. Mattina di Natale. Feste di compleanno. Squadre sportive. Ogni ricordo era conservato nella sua cornice da pochi spiccioli.
Slidell prese un cuscino, lo guardò sollevando le sopracciglia e lo ripose tra me e lui. DIO È AMORE, ricamato in blu e verde. Un lavoro di Melba?
La tristezza che avevo provato per tutta la mattina aumentò al pensiero di quei sei bambini che avevano perso la loro mamma. O del bambino di Tamela.
Il cuscino. Le fotografie. I ricordi di scuola e delle attività sportive. A esclusione del ritratto di un Gesù nero appeso sopra l'arco dell'ingresso, sarei potuta essere nella casa della mia infanzia a Beverly, nella zona sud di Chicago. La nostra minuscola casetta di mattoni era stata la mia Green Gables, la mia Ponderosa, la mia Enterprise fino a sette anni. Finché la disperazione per la morte del suo bambino spinse mia madre a tornare nella sua amata Carolina, con il marito e le figlie al suo doloroso seguito.
Adoravo quella casa, mi ci sentivo amata e protetta. E in quel soggiorno percepii le stesse sensazioni.
Slidell prese il fazzoletto e si asciugò la faccia.
«Spero che al vecchio tocchi la stanza con l'aria condizionata.» E poi, quasi sussurrando: «Ma con sei figli, immagino sia già molto riuscire ad avere una stanza».
Lo ignorai.
Il caldo intensificava gli odori della casa. Cipolle. Olio. Cera per mobili. Il prodotto usato per lucidare il linoleum.
Chissà chi lo puliva? Tamela? Geneva? Gideon Banks?
Studiai il Gesù nero. Stessa tunica, stessa corona di spine, stessi palmi aperti. Solo la pettinatura e il colore della pelle erano diversi dal ritratto appeso sul letto di mia madre.
Slidell sospirò rumorosamente, infilò un dito nel colletto e lo allontanò dalla pelle.
Guardai il linoleum. Il motivo ricordava la ghiaia. Bianco e grigio.
Come le ossa e la cenere trovate dentro la stufa a legna.
Che cosa gli avrei detto?
In quel momento una porta si aprì. Un gruppo gospel cantava Going on in the name of the Lord. Il fruscio delle ciabatte sul linoleum.
Gideon Banks sembrava più piccolo di come lo ricordavo, tutto nervi e ossa. Mi sbagliavo. Ripensandoci, nel suo mondo sarebbe dovuto sembrare più grande, un re nel suo regno. Il pater familias. Possibile che il mio ricordo fosse sbagliato? Magari con l'età si era rimpicciolito. O magari con le preoccupazioni.
Banks esitò qualche istante sotto l'arco, e socchiuse le palpebre dietro le lenti spesse. Poi si raddrizzò, andò fino alla poltrona reclinabile e si sedette, con le mani nodose appoggiate ai braccioli.
Slidell si sporse in avanti. Lo anticipai.
«Grazie per averci ricevuti, signor Banks.»
Banks annuì. Portava un paio di sandali tipo birkenstock, pantaloni grigi da lavoro e una camicia arancione. Sotto le maniche, le braccia sembravano due rametti.
«Ha una casa molto accogliente.»
«Grazie.»
«Vivete qui da molto tempo?»
«A novembre sono quarantasette anni.»
«Non ho potuto fare a meno di guardare le sue fotografie.» Indicai la collezione di cornici. «Ha davvero una bella famiglia.»
«Adesso ci siamo solo io e Geneva. Geneva è la penultima. Mi aiuta con la casa. Mentre Tamela è la minore. Se n'è andata qualche mese fa.»
«Immagino che lei sappia perché siamo qui, signor Banks.» Stavo ancora cercando un modo per cominciare.
«Sì, lo so. State cercando Tamela.»
Slidell si schiarì la gola, come per dirmi di andare avanti.
«Sono davvero molto spiacente di doverle dare questa notizia, signor Banks, ma dal materiale rinvenuto all'interno della stufa situata nel soggiorno di Tamela...»
«Quella non è la casa di Tamela» mi interruppe Banks.
«La casa era stata presa in affitto da un certo Darryl Tyree» intervenne Slidell. «Secondo quanto dichiarato da alcuni testimoni, sua figlia viveva con il signor Tyree da circa tre mesi.»
Gli occhi di Banks non si spostarono mai dal mio viso. Occhi colmi di dolore.
«Quella non era la casa di Tamela» ripeté Banks. Il suo tono non era né rabbioso né polemico; più che altro sembrava che Banks tenesse molto alla precisione dei fatti.
La camicia appiccicata alla schiena per il sudore iniziava a darmi prurito. Inspirai a fondo e ricominciai.
«Il materiale recuperato all'interno della stufa situata in quella casa includeva frammenti di ossa di un neonato.»
Le mie parole sembrarono coglierlo alla sprovvista. Lo sentii prendere un lungo respiro e notai che il mento per un attimo si era alzato.
«Tamela ha solo diciassette anni. È una brava ragazza.»
«Sì.»
«E non era incinta.»
«Mi spiace, ma in realtà lo era.»
«Chi lo dice?»
«Abbiamo avuto questa informazione da più di una fonte» intervenne Slidell.
Banks rifletté per qualche secondo. Poi disse: «Perché ve ne andate in giro a ficcare il naso nelle stufe?».
«Perché un informatore ha riferito che un neonato era stato bruciato a quell'indirizzo. E in questi casi le indagini scattano automaticamente.»
Slidell evitò di specificare che la soffiata era arrivata da un certo Harrison «Sonny» Pounder, uno spacciatore di strada arrestato da poco che cercava di barattare informazioni contro un trattamento di favore.
«Di chi si tratta?»
«Non è importante.» Il tono di Slidell era affilato dall'irritazione. «Dobbiamo sapere dove Tamela si trova in questo momento.»
Banks si alzò e ciabattò fino alla libreria più vicina. Poi tornò alla poltrona reclinabile e mi passò una fotografia.
Guardai la ragazza nell'immagine, consapevole di essere osservata dagli occhi di Banks. E da quelli di sua figlia, che incombeva da sotto l'arco.
Tamela indossava una corta tutina dorata con una W sul davanti. Sedeva con un ginocchio piegato, e una gamba allungata dietro, le mani sui fianchi, circondata da un cerchio dorato e con due grandi pompon ai polsi. Aveva un enorme sorriso, gli occhi luminosi e felici. Due fermagli le scintillavano tra i capelli corti.
«Sua figlia è stata una cheerleader» osservai.
«Sissignora.»
«Mia figlia a sette anni ha tentato di diventare cheerleader» dissi. «Per la squadra di calcio dei Pop Warner, una squadra di pulcini. Ma poi ha deciso che preferiva giocare anziché incitare i giocatori.»
«Anche se sono piccoli, hanno già le loro idee.»
«Già. Proprio così.»
Banks mi passò una seconda fotografia. Questa volta era una polaroid.
«Questo è il signor Darryl Tyree» disse.
Tamela era con un uomo alto e magro, con molte catene d'oro al collo e un cappello nero in testa, e le teneva il braccio ossuto sulle spalle. Tamela sorrideva ancora, ma negli occhi non aveva più la stessa luce. Aveva il viso tirato, il corpo teso.
Restituii le fotografie al signor Banks.
«Signor Banks, lei sa dove si trova adesso Tamela?» domandai sottovoce.
«Tamela ormai è grande. Dice che non mi devo impicciare.»
Silenzio.
«Se solo potessimo parlarle, magari potrebbe fornirci una spiegazione per quello che è successo.»
Un altro silenzio, questa volta più lungo.
«Lei conosce il signor Tyree?» domandò Slidell.
«Tamela deve finire le superiori, come hanno fatto Reggie, e Harley, e Jonah, e Sammy. E non ha mai avuto problemi di droga o con i ragazzi.»
Lasciammo passare qualche secondo. E quando capimmo che Banks non avrebbe proseguito, Slidell lo sollecitò.
«E poi?»
«E poi è arrivato Darryl Tyree.» Il tono secco con cui Banks pronunciò quel nome fu il primo accenno di rabbia che manifestò. «E lei ha dimenticato i libri, per passare tutto il suo tempo a pensare a Tyree, e a preoccuparsi quando lui non si faceva vedere.»
Banks spostò lo sguardo da Slidell a me.
«Mia figlia pensa che io non sappia nulla, ma io so cosa si dice in giro riguardo a Darryl Tyree. Così le ho detto che per lei non andava bene, le ho detto che qui non lo volevo più vedere.»
«È per questo motivo che Tamela è andata via di casa?» domandai.
Banks annuì.
«E quando è successo, esattamente?»
«Verso Pasqua. Più o meno quattro mesi fa.»
Banks aveva gli occhi lucidi.
«Sapevo che si era messa qualcosa in testa. Ma credevo che fosse solo questo Tyree. Gesù santo, non immaginavo che fosse incinta.»
«Lei sapeva che era andata a vivere con Tyree?»
«Non mi sono impicciato, Dio mi perdoni. Ma l'avevo immaginato, che era andata a stare da lui.»
«Lei per caso ha un'idea del motivo per cui Tamela avrebbe fatto del male al neonato?»
«Nossignore. Tamela è una brava ragazza.»
«Forse questo signor Tyree ha insistito con Tamela perché non voleva il bambino?»
«Non è così.»
La voce di Geneva ci fece voltare.
Ci stava guardando inespressiva, con quella sua camicia informe e i terribili calzoncini.
«In che senso?»
«Tamela mi racconta delle cose.»
«Nel senso che si confida con lei?» dissi io.
«Sì. Si confida. Mi dice quelle cose che a papà non può dire.»
«Che cosa non può dire a me?» La voce di Banks era alta e lamentosa.
«Un sacco di cose, papà. Con te per esempio non può parlare di Darryl. Perché tu ti metti a gridare, e vuoi farla pregare in continuazione.»
«Qualcuno dovrà pensare alla sua an...»
«Quindi Tamela parlava della sua relazione con Tyree?» Slidell interruppe Banks.
«A volte.»
«Le aveva detto che era incinta?»
«Sì.»
«Quando?»
Geneva scrollò le spalle. «Quest'inverno.»
«Lei sa dove si trova sua sorella in questo momento?»
Geneva ignorò la domanda di Slidell.
«Che cosa avete trovato nella stufa di Darryl?»
«Frammenti di ossa carbonizzati» risposi.
«Siete sicuri che sono di un neonato?»
«Sì.»
«Forse il bambino era nato morto.»
«È un'eventualità possibile.» Pronunciai quelle parole con pochissima convinzione, ma non riuscivo a sostenere la tristezza negli occhi di Geneva. «Per questo motivo dobbiamo trovare Tamela, per capire che cosa è successo. Forse la morte di quel bambino si potrebbe spiegare con qualcosa che non è un omicidio. E spero con tutto il cuore che sia così.»
«Forse il bambino è nato in anticipo.»
«Sono un'esperta di ossa, Geneva. E so riconoscere i cambiamenti che si verifìcano nello scheletro di un feto che si sta sviluppando.»
Poi ricordai una delle mie regole base. SPC. Semplificare per far capire.
«Il bambino di Tamela non era prematuro.»
«Che cosa significa?»
«Che la gravidanza è durata le consuete trentotto settimane, o quasi... comunque un tempo del tutto sufficiente alla sopravvivenza del bambino.»
«Forse ci sono stati dei problemi.»
«Sì, potrebbero esserci state delle complicazioni.»
«Come mai siete sicuri che si tratta del bambino di Tamela?»
Slidell si intromise, elencando le sue motivazioni sulla punta delle dita paffute.
«Numero uno, diversi testimoni hanno affermato che sua sorella era incinta. Numero due, le ossa sono state trovate nella stufa della casa in cui lei risiedeva e, numero tre, lei e Tyree sono scomparsi.»
«Il bambino potrebbe essere di qualcun altro.»
«Sì, e io potrei essere Madre Teresa, ma non lo sono.»
Geneva si voltò ancora verso di me.
«E il DNA cosa dice?»
«I frammenti erano troppo pochi e troppo carbonizzati per eseguire il test del DNA.»
Geneva non mostrò alcuna reazione.
«Lei sa dov'è sua sorella, signorina Banks?» Il tono di Slidell si era fatto più incisivo.
«No.»
«C'è qualcosa che potrebbe dirci?» domandai.
«Solo una cosa.»
Geneva guardò suo padre, poi Slidell, poi me. Donna bianca. Poliziotto bianco. Pessime possibilità di scelta.
Decise che la donna era meno pericolosa, e lanciò a me la sua bomba.
3
Mentre Slidell mi riaccompagnava alla mia auto, cercai di trattenere le emozioni e di ricordare che ero una professionista.
Ma provavo una grande tristezza per Tamela e per il suo piccolo. E fastidio per la durezza con cui Slidell aveva trattato i Banks. E ansia per tutto ciò che avrei dovuto fare nei due giorni a venire.
Avevo promesso di trascorrere il sabato con Katy. La domenica aspettavo un amico. Il lunedì ero in partenza per la prima vacanza non familiare che mi concedevo da anni.
Non fraintendetemi. Adoro la mia annuale settimana al mare con mia sorella Harry e mio nipote Kit, che arrivano da Houston, e tutti i parenti lettoni del mio ex marito, che arrivano da Chicago. Se non c'è nessun litigio in corso, Pete ci raggiunge per qualche giorno. Prendiamo in affitto una casa con dodici stanze vicino a Nags Head, o a Wilmington, o a Charleston, o a Beaufort, andiamo in bicicletta, ci impigriamo sulla spiaggia, guardiamo la tivù, leggiamo romanzi, e rinforziamo i nostri legami familiari. La nostra settimana al mare è un momento di rilassata compagnia amato da tutti.
Ma questo viaggio era diverso.
Molto diverso.
Feci ripassare mentalmente e per l'ennesima volta la mia lista.
Consulenze. Bucato. Spesa. Pulizie. Valigie. Birdie da Pete.
Dettaglio: non sentivo Pete da più di una settimana. Era strano. Anche se eravamo separati da qualche anno, lo vedevo o lo sentivo regolarmente. Nostra figlia Katy. Il suo cane Boyd. Il mio gatto Birdie. I suoi parenti in Illinois. I miei parenti in Texas e in Carolina. Per via di tutti questi legami, in genere finivamo per vederci o sentirci ogni pochi giorni. E poi, Pete mi piaceva sempre, la sua compagnia per me era ancora un piacere. Semplicemente, non potevo essere sua moglie.
Scrissi un biglietto per Katy, per sapere se per caso suo padre fosse fuori città. O se si fosse innamorato un'altra volta.
Innamorato.
Tornai alla mia lista.
Ceretta a caldo?
Gesù Gesù...
Aggiunsi una voce all'elenco. Lenzuola nella camera degli ospiti.
Non sarei mai riuscita a fare tutto.
Quando Slidell mi lasciò nel parcheggio dell'Istituto di medicina legale, avevo i muscoli del collo irrigiditi e la nuca dolorante.
La temperatura torrida che trovai nella mia Mazda non aiutò. Né lo fece il traffico dei quartieri alti.
Prevedendo che sarebbe stata una lunga serata, deviai verso il La Paz, un ristorante messicano nel South End, per prendere qualche enchiladas da asporto. E guacamole e panna acida supplementare per Birdie.
La mia casa viene chiamata dai residenti di Sharon Hall «l'Annesso della rimessa per le diligenze», o più semplicemente l'Annesso. Sharon Hall è una residenza del XIX secolo trasformata in condominio nei dintorni di Myers Park, nella zona sudorientale di Charlotte. Nessuno sa perché l'Annesso fu costruito in origine. È uno strano piccolo edificio che non compare su nessuna mappa catastale. Esiste l'edificio principale. La ex rimessa delle diligenze. I giardini interni ed esterni. Ma nessun Annesso.
Poco male. Benché stipato all'inverosimile, il posto per me è perfetto. Camera da letto e bagno al piano di sopra. Cucina, soggiorno, camera degli ospiti/studio al piano di sotto. Poco più di ottanta metri quadrati, quello che gli agenti immobiliari definiscono «intimo e accogliente».
Alle sei e quarantacinque parcheggiai davanti alla mia veranda.
L'Annesso era meravigliosamente silenzioso. Entrai dalla cucina, e udii soltanto il ronzio del frigorifero e il leggero ticchettio dell'orologio di nonna Brennan.
«Ciao, Bird.»
Il mio gatto non si fece vedere.
«Birdie.»
Ancora niente.
Posai cena, borsa e portadocumenti, e presi dal frigo una lattina di Diet Coke. Quando mi voltai, Birdie si stava stiracchiando sulla porta del soggiorno.
«Non ti perdi mai l'apertura di una lattina, vero, furbacchione?»
Mi avvicinai e gli diedi una grattatina sulla testa.
Birdie si mise a sedere puntellandosi sulle zampe anteriori, poi allungò una delle zampe posteriori e prese a leccarsi i genitali.
Buttai giù una sorsata di Coca. Non era un pinot, ma poteva andare. I giorni in cui esageravo con il pinot erano finiti da tempo. O con lo Shiraz. O con la Heineken. O con un merlot scadente. Era stata una lunga battaglia, ma ormai su quella vicenda era calato il sipario.
Se mi mancavano gli alcolici? Un casino. Alle volte al punto che ne sentivo l'odore e il sapore nel sonno. Ma quello che non mi mancava era la mattina dopo. Le mani che tremavano, il cervello dilatato, l'odio per me stessa, l'angoscia per ciò che avevo detto e fatto e che non ricordavo più.
Da allora in poi, Coca-Cola. Un grande amore.
Trascorsi il resto della serata scrivendo consulenze. Birdie gironzolò finché non ebbe finito il guacamole e la panna acida, poi si sdraiò zampe all'aria sul divano e si appisolò.
Da quando ero rientrata a Charlotte da Montréal, oltre al neonato di Tamela, avevo esaminato tre gruppi di resti. E ciascuno di essi richiedeva una consulenza scritta.
Un cadavere parzialmente scheletrizzato era stato scoperto sotto una catasta di pneumatici in una discarica di Gastonia. Femmina; bianca; tra i ventisette e i trentadue anni; altezza compresa fra un metro e cinquantacinque e un metro e sessantatré. Massicci restauri dentali. Fratture guarite di naso, mascellare destro e mandibola. Lesioni da arma bianca sulla porzione anteriore di coste e sterno. Ferite da difesa sulle mani. Probabile omicidio.
Una persona uscita in barca sul Lago Norman aveva recuperato una porzione di avambraccio. Adulto; probabilmente bianco; probabilmente maschio. Altezza compresa fra un metro e sessantacinque e un metro e ottanta.
Un cranio era stato ritrovato sulle rive dello Sugar Creek. Adulto anziano; femmina; nera; niente denti. Non recente. Probabilmente una sepoltura cimiteriale venuta allo scoperto.
Mentre lavoravo, la mente andò al periodo che avevo trascorso in Guatemala, in primavera. Rividi un gesto. Una faccia. Una cicatrice, terribilmente sexy. Sentii un brivido di eccitazione, seguito da una punta di angoscia. Era una buona idea, questa vacanza al mare? Mi costrinsi a concentrarmi sulle consulenze.
All'una e un quarto spensi il computer e mi trascinai al piano di sopra.
Solo dopo aver fatto la doccia ed essermi infilata sotto le lenzuola, trovai il tempo di ripensare all'affermazione di Geneva Banks.
«Non era il figlio di Darryl.»
«Che cosa?» avevamo replicato all'unisono Slidell, Gideon Banks e io.
Geneva aveva ripetuto la sua rivelazione.
E di chi era?
Nessuna idea. Tamela le aveva confidato che il bambino che aveva in grembo non era di Darryl Tyree. Geneva non sapeva altro.
Quanto meno, così aveva detto.
Mille domande si contendevano la priorità nella mia testa.
L'informazione di Geneva scagionava Tyree? O lo rendeva ancora più sospetto? Sapendo che il figlio non era suo, poteva averlo ucciso. Oppure poteva aver costretto Tamela a farlo.
O magari Geneva aveva ragione. Il neonato poteva essere nato morto. Poteva avere un difetto genetico. Un problema al cordone ombelicale. Forse Tamela, distrutta dal dolore, aveva scelto di liberarsene nel modo più sbrigativo e aveva cremato il corpicino senza vita nella stufa a legna. Era possibile. Ma dov'era stato partorito, il bambino?
Birdie salì sul letto. Gli lasciai esplorare le possibilità che offriva il mio giaciglio e accettai che si accoccolasse dietro le mie ginocchia.
La mia mente tornò all'imminente gita al mare. Chissà se avrebbe portato da qualche parte. Chissà se davvero volevo che portasse da qualche parte. Chissà se cercavo qualcosa di importante, o semplicemente speravo in un po' di sesso e di divertimento. In ogni caso, ero abbastanza arrapata. Ma sarei stata in grado di impegnarmi in un'altra relazione? Sarei stata in grado di fidarmi di nuovo? Il tradimento di Pete era stato così doloroso, e la rottura del nostro matrimonio un'agonia. Non ero sicura di essere pronta a ricominciare.
Tornai a Tamela. Dov'era? Tyree le aveva fatto del male? Erano scappati insieme? Tamela era fuggita con qualcun altro?
Mentre cedevo al sonno, ebbi un ultimo inquietante pensiero.
Trovare le risposte sul caso di Tamela Banks era compito di Skinny Slidell.
Quando mi svegliai, un sole scarlatto filtrava tra le foglie della magnolia di fronte alla mia finestra. Birdie era sparito.
Controllai l'ora. Le sei e quarantatré.
«Non ci penso nemmeno» mormorai; raccolsi le ginocchia contro il petto e mi raggomitolai di nuovo sotto le lenzuola.
Dopo qualche secondo, sentii un peso premere sulla schiena. Lo ignorai.
Una lingua mi raschiò la guancia.
«No, Birdie. Non adesso.»
Qualche secondo ancora, e poi mi sentii tirare i capelli.
«Bird!»
Un attimo di tregua. Poi sentii di nuovo tirare.
«Smettila!»
Altra tiratina.
Mi girai di scatto e gli puntai un dito sul naso.
«Non mi mangiare i capelli!»
Il mio gatto mi guardò con i suoi occhi tondi e gialli.
«E va bene.»
Con un sospiro teatrale, scesi dal letto e mi infilai l'uniforme estiva: calzoncini e T-shirt.
Sapevo che cedere a Birdie significava confermare la validità della sua provocazione, ma non riuscii a resistere. Era l'unico giochino che funzionava, e lo stronzetto lo sapeva benissimo.
Pulii il guacamole che Birdie aveva riciclato sul pavimento della cucina, mangiai una scodella di cereali, e poi diedi un'occhiata all'«Observer» bevendo il caffè.
C'era stato un tamponamento sulla I-77 dopo un concerto al Paramount's Carowinds Theme Park. Due morti, quattro feriti gravi. Un uomo era stato colpito con una fucilata in un cortile di Wilkinson Boulevard. Un filantropo locale era stato accusato di crudeltà sugli animali per aver schiacciato sei gattini nel suo tritarifiuti. Il consiglio comunale stava ancora litigando sul sito da destinare al nuovo stadio.
Chiusi il giornale e valutai le mie opzioni.
Bucato? Spesa? Pulizie?
Al diavolo.
Mi versai un'altra tazza di caffè, passai in soggiorno e trascorsi il resto della mattinata a scrivere consulenze.
Katy venne a prendermi a mezzogiorno in punto.
Pur essendo un'ottima studentessa, versata nella pittura, nel tip tap e nella carpenteria, nonché dotata di uno spiccato senso dell'ironia, la puntualità non è un concetto che lei tenga in grande considerazione.
Mah.
Né, a quanto mi risulta, si è mai appassionata a quel rito diffuso in tutto il Sud degli Stati Uniti noto come pig pickin', in altre parole al barbecue estivo a base di carne di maiale arrosto.
Anche se il suo domicilio ufficiale è da Pete, nella casa dove è cresciuta, Katy e io trascorriamo spesso del tempo insieme, soprattutto nei periodi in cui non frequenta i corsi della University of Virginia, a Charlottesville. Siamo andate a concerti rock, alle terme, a tornei di tennis, partite di golf, in ristoranti, bar e al cinema. Ma mai mi aveva proposto una giornata tra maiale affumicato e complessini blues.
Mah.
Quando vidi Katy nella veranda di casa mia, come sempre mi meravigliai di essere stata in grado di generare una creatura simile. In effetti, io non sono esattamente un mostro, ma Katy è davvero uno schianto di ragazza. Con i suoi capelli biondo grano e gli occhi verdi come la giada, possiede quella bellezza che induce gli uomini a fare a pugni e a esibirsi in tuffi ad angelo da pontili sgangherati.
Era un altro afoso pomeriggio d'agosto, del genere che ti fa ripensare alle estati della tua infanzia. Nei posti dov'ero cresciuta, i cinema avevano l'aria condizionata ma le case e le automobili erano roventi, e infatti né la villetta di Chicago, né la casa dove ci eravamo trasferiti a Charlotte erano dotati di un impianto di condizionamento. Per me, gli anni Sessanta erano un'epoca di ventilatori mobili e a soffitto.
Il caldo torrido e umido mi ricordava le gite al mare in pullman. Oppure le partite a tennis sotto un implacabile cielo azzurro. O i pomeriggi in piscina. La caccia alle lucciole mentre gli adulti sorseggiavano il tè sulla veranda sul retro. Adoro il caldo.
In ogni caso, avrei preferito che la Volkswagen di Katy avesse l'aria condizionata. Viaggiavamo con i finestrini abbassati e l'aria ci turbinava davanti alla faccia.
Boyd stava ritto sulle zampe anteriori dietro di noi, il naso al vento, e la lingua di melanzana che penzolava di lato. Trentacinque chili di ispida pelliccia fulva. E cambiava finestrino ogni minuto, spruzzandoci i capelli di saliva mentre si spostava da un lato all'altro.
In realtà la brezza più che altro metteva in circolazione aria calda e rimescolava l'odore di cane dai sedili posteriori a quelli anteriori.
«Mi sembra di essere in un'asciugatrice» dissi, mentre lasciavamo la Beatties Ford Road per svoltare sulla NC 73.
«Devo assolutamente far riparare l'aria condizionata.»
«Ti do io i soldi.»
«Affare fatto.»
«Che cos'è esattamente questo picnic?»
«I McCranie lo organizzano tutti gli anni per gli amici e i clienti del negozio di pipe.»
«Ma perché ci stiamo andando insieme?»
Katy alzò gli occhi al cielo, abitudine che aveva dall'età di tre anni.
Ammetto di essere anch'io un'amante di questo gesto, ma mia figlia è decisamente una fuoriclasse. Katy è una vera esperta nel dare alle sue alzate d'occhi sfumature sottilissime e sempre nuove. Questa era un'alzata d'occhi semplice, e stava per: «Ti ho già spiegato tutta la storia».
«Perché i picnic sono divertenti» rispose.
Boyd cambiò finestrino, fermandosi a metà strada per leccare un po' di crema solare dalla mia guancia. Lo spinsi via e mi asciugai la pelle.
«E perché ci siamo portate dietro questo sacco di pulci?»
«Perché papà è fuori città. Quel cartello non dice Cowans Ford?»
«Bella scusa» replicai. «Sì, dice così.»
Pensai per un istante alla storia locale. Cowans Ford era un guado utilizzato dalla tribù dei catawba nel 1600, e in seguito dai cherokee. Davy Crockett aveva combattuto qui durante la guerra con i francesi e con gli indiani.
Sempre qui, nel 1781 i patrioti guidati dal generale William Lee Davidson avevano combattuto contro lord Cornwallis e le sue giubbe rosse. Davidson era morto in battaglia, iscrivendo il suo nome nella storia della contea di Mecklenburg.
All'inizio degli anni Sessanta, la Duke Power Company aveva sbarrato il corso del Catawba River all'altezza di Cowans Ford per creare il Lago Norman, lungo quasi cinquanta chilometri.
Oggi, la centrale nucleare Duke's McGuire, costruita in sostituzione della vecchia centrale idroelettrica, sorge praticamente accanto al monumento dedicato al generale Davidson e al rifugio Cowans Ford, una riserva naturale di quasi mille ettari.
Chissà come si sente il generale a dividere il sacro suolo con una centrale nucleare.
Katy svoltò in una strada a due corsie molto più stretta di quella che stavamo percorrendo, fiancheggiata sui due lati da pini e alberi di altro genere.
«A Boyd piace la campagna» disse Katy.
«A Boyd piacciono solo le cose che può mangiare.»
Katy diede un'occhiata alla fotocopia di una cartina disegnata a mano infilata dietro il retrovisore.
«Dovrebbe essere tra circa cinque chilometri, sulla destra. È una vecchia casa colonica.»
Viaggiavamo da almeno un'ora.
«Questo tizio vive qui e ha un negozio di pipe a Charlotte?» domandai.
«Il McCranie's principale si trova al Park Road Shopping Center.»
«Mi spiace, ma non fumo la pipa.»
«Ma ci sono anche miliardi di sigari.»
«Il problema è proprio questo. Quest'anno non ho ancora fatto la consueta scorta.»
«Sono sorpresa che tu non abbia mai sentito parlare di McCranie. Quel posto a Charlotte è un'istituzione. La gente praticamente va lì per incontrarsi. Succede da anni, ormai. Il signor McCranie è in pensione, ma l'attività è stata rilevata dai figli. Quello che vive qui lavora al negozio nuovo aperto a Cornelius.»
«E?» Intonazione crescente.
«E cosa?» Mia figlia mi guardò con i suoi innocenti occhioni verdi.
«È carino?»
«È sposato.»
Alzata d'occhi delle grandi occasioni.
«Allora avrà un amico, immagino.»
«Sei tu che dovresti avere degli amici, mamma.»
Boyd notò un cane da riporto nel cassone di un pick-up che proveniva dalla direzione opposta. Ringhiando, schizzò dalla mia parte a quella di Katy e sporse la testa dal finestrino più che poté per lanciare all'indirizzo del rivale il suo miglior latrato se-solo-non-fossi-intrappolato-in-quest'auto.
«Seduto» ordinai.
Boyd ubbidì.
«Conoscerò quest'amico?» domandai.
«Sì.»
Dopo qualche minuto iniziammo a vedere la fila delle auto posteggiate su entrambi i lati della strada. Katy parcheggiò sulla destra, spense il motore e scendemmo dall'auto.
Boyd si scatenò in un delirio schizzando da un finestrino all'altro e ritirando e sporgendo la lingua.
Katy prese le sedioline pieghevoli dal bagagliaio e me le affidò. Poi agganciò il guinzaglio al collare di Boyd, che saltò giù dall'auto e quasi le slogò la spalla per la smania di unirsi alla festa.
Sotto gli imponenti olmi del giardino, e sulla striscia d'erba di circa venti metri stretta fra la casa e il bosco, si erano raccolte almeno un centinaio di persone. Alcune erano già sedute sulle sdraio, altre ciondolavano in giro, o chiacchieravano tra loro a coppie o a gruppetti di tre persone, facendo acrobazie per reggere i piatti di plastica e le lattine di birra.
Molti portavano berretti sportivi. E molti fumavano il sigaro.
Un gruppo di bambini giocava con i ferri di cavallo davanti al fienile, che non vedeva una mano di pittura da quando Cornwallis era passato di lì. Altri si inseguivano, o lanciavano palle e frisbee in ogni direzione.
Il complesso di musica blues era stato sistemato tra la casa e il fienile, nel punto più lontano concesso dalla lunghezza delle prolunghe. Nonostante il caldo torrido, i quattro componenti indossavano tutti vestito e cravatta. Il cantante stava accennando White House Blues. Non era Bill Monroe, ma poteva andare.
Un giovanotto si materializzò mentre io e Katy stavamo aggiungendo le nostre sedie al semicerchio di fronte al complesso.
«Kater!»
Kater? Strano modo di abbreviare il nome di Katy. Mi staccai la camicia sudata dalla schiena.
«Ciao, Palmer.»
Palmer? Chissà se si chiamava Palmy.
«Mamma, ti presento Palmer Cousins.»
«Salve, dottoressa Brennan.»
Palmer si tolse gli occhiali da sole e mi tese la mano. Non era alto, ma il ragazzo aveva una folta chioma di capelli neri e gli occhi azzurri, e sorrideva come Tom Cruise. Ed era bello in modo sconcertante.
«Tempe.» Anch'io tesi la mano.
La stretta di Palmer rischiò di spezzarmi qualche osso.
«Katy mi ha parlato molto di lei.»
«Davvero?» guardai mia figlia. Lei stava guardando Palmer.
«E il cucciolone, chi è?»
«Boyd.»
Palmer si sporse in avanti e grattò un orecchio di Boyd. Il cane rispose leccandogli la faccia. Due o tre pacchette sulla schiena, e Palmer fu di nuovo al nostro livello.
«Bel cane. Posso portare alle signore qualcosa da bere?»
«Sì, io prendo una birra» trillò Katy. «Per la mamma Diet Coke. Lei non può bere.»
Lanciai a mia figlia un'occhiata che avrebbe congelato l'asfalto rovente.
«Andate pure a spiluccare qualcosa» suggerì Palmer, e si allontanò.
Di colpo Boyd schizzò in avanti strappando il guinzaglio di mano a Katy, e iniziò a correre in cerchio intorno alle gambe di Palmer.
Sul punto di perdere l'equilibrio, Palmer si voltò con un'aria perplessa sulla sua faccia perfetta.
«Si comporta bene senza guinzaglio?»
Katy annuì. «Bisogna solo tenerlo d'occhio quando si avvicina alla roba da mangiare.»
Katy recuperò il guinzaglio e lo sganciò dal collare.
Palmer sollevò il pollice in segno di assenso.
Boyd, felice, riprese a disegnare i suoi cerchi.
Dietro la casa, una serie di tavolini da campeggio offrivano un'ampia scelta di cibi casalinghi nei contenitori ermetici di plastica. Cole slow, l'insalata con sedano rapa, carote e cipolle in maionese. Insalata di patate. Fagioli lessi. Verdure miste.
Un tavolino era coperto di vaschette di alluminio traboccanti di maiale arrosto. Ai margini del bosco, l'odore della carne cotta aleggiava sulla gigantesca cucina che era entrata in funzione fin dalla notte.
Su un altro tavolo c'erano i dolci. Su un altro ancora, le insalate.
«Ma non avremmo dovuto portare qualcosa anche noi?» domandai, mentre esaminavamo la scelta a nostra disposizione.
Katy prese una confezione di fichi Newtons dalla borsetta e li posò sul tavolo dei dessert.
Risposi con una delle mie alzate d'occhi.
Quando Katy e io tornammo alle nostre sedie, il suonatore di banjo aveva attaccato Rocky Top. Non era Pete Seeger, ma poteva andare.
Nelle due ore seguenti, una parata di persone si fermò a fare due chiacchiere. Mi sembrava di essere tornata al giorno dell'orientamento professionale al liceo. Avvocati. Piloti. Meccanici. Un giudice. Qualche informatico. Un ex studente, diventato arredatore d'interni. E rimasi sorpresa dal numero di poliziotti del Dipartimento di polizia che conoscevo.
Diversi McCranie si avvicinarono per darci il benvenuto e per ringraziarci di essere venute. Arrivò anche Palmer Cousins e di nuovo si allontanò.
Venni a sapere che Palmer era stato presentato a Katy da Lija, la sua migliore amica fin dalle scuole medie. Appresi inoltre che Lija si era laureata in sociologia alla University of Georgia e che lavorava a Charlotte come paramedico.
Ma più importante ancora, appresi che Palmer era single, aveva ventisette anni, una laurea in biologia presa a Wake Forest e che attualmente lavorava per lo United States Fish and Wildlife Service, negli uffici di Columbia, in South Carolina.
Ed era un cliente regolare di McCranie, quando tornava a Charlotte. Quello che non capivo, però, era il motivo per cui mi ritrovavo a mangiare carne di maiale su un prato di trifoglio.
Boyd intanto si divideva tra dormicchiare ai nostri piedi, correre seguito da variabili codazzi di bambini, e scandagliare la folla dei presenti, cercando le persone più facili da corrompere. Era nella fase della pennichella, quando un gruppo di bambini arrivò a richiedere la sua compagnia.
Boyd aprì un solo occhio, e risistemò il muso sulle zampe. Una bambina sui dieci anni con una mantellina viola Bible Girl e un berrettino adeguato gli agitò sotto il naso un muffin di mais. Boyd non poté resistere.
Mentre li osservavo sparire dietro il fienile, ricordai che al telefono Katy mi aveva detto che Boyd voleva parlarmi.
«Di che cosa voleva parlarmi, il nostro chow-chow?» le domandai.
«Ah, già. Papà ha un processo ad Asheville, e così gli sto tenendo Boyd.» Con l'unghia del pollice cominciò a staccare l'etichetta della sua Budweiser. «Ma secondo lui ci vorranno altre tre settimane prima che finisca. Però io...» Katy scavò un lungo tunnel nell'etichetta bagnata. «Ecco, io pensavo di cambiare casa per il resto dell'estate.»
«Cambiare casa?»
«Andrei a stare da Lija. Lei ha questa casa fantastica nel distretto di Third Ward, e la sua nuova compagna di appartamento arriverà solo a settembre. E poi papà non c'è e io sarei sola in ogni caso.» Ormai l'etichetta era completamente strappata. «Quindi ho pensato che sarebbe divertente stare da lei per queste poche settimane. Mi ha detto che non mi fa nemmeno pagare l'affitto.»
«Fino all'inizio dei corsi, quindi.»
Katy frequentava il sesto e, per ordine dei genitori, ultimo anno alla University of Virginia.
«Ma certo.»
«Non stai pensando di mollare, vero?»
Ricevetti un'alzata d'occhi da Premio Oscar.
«Ehi, per caso tu e papà avete gli stessi copioni?»
Iniziavo a capire dove sarebbe andata a parare la conversazione.
«Lasciami indovinare. Vuoi che mi prenda Boyd.»
«Solo finché non torna papà.»
«Lunedì vado al mare.»
«Vai a casa di Anne, giusto? A Sullivan's Island?»
«Sì.» Circospetta.
«Boyd adora il mare.»
«Boyd adora qualsiasi cosa, anche un campo di concentramento, se gli danno qualcosa da mangiare.»
«Ad Anne non dispiacerebbe se lo portassi con te. E poi ti farebbe compagnia, e non saresti sola.»
«Boyd non è gradito nella tua casa fuori città?»
«Non è quello. Solo che il padrone di casa di Lija...»
D'un tratto, da un punto in mezzo al bosco mi arrivarono i frenetici latrati di Boyd.
Dopo qualche secondo, ai latrati si aggiunse un urlo da far gelare il sangue.
E poi un altro.
4
Mi alzai di scatto con il cuore che mi martellava nel petto.
Le persone che avevo intorno mi apparvero come su uno schermo diviso. Quelli vicino al quartetto blues continuarono a chiacchierare e a mangiare, senza rendersi conto che tra gli alberi stava succedendo qualcosa. Quelli verso il fienile rimasero pietrificati con la bocca aperta e la testa voltata verso quei suoni terribili.
Mi precipitai in direzione delle grida, cercando di evitare le sdraio, le coperte stese a terra e la gente. Sentivo dietro di me la voce di Katy e degli altri.
Boyd non aveva mai fatto male a un bambino, al massimo gli aveva ringhiato. Ma faceva caldo. Era eccitato. Forse qualche bambino lo aveva provocato. O confuso. Forse il cane si era rivoltato.
Gesù santo.
Nella mente vidi scorrere immagini di persone sbranate. Vidi squarci, ferite sanguinanti. Mi sentii assalire dalla paura.
Oltre il fienile, notai un passaggio tra gli alberi e seguii un sentierino di terra battuta. Rami e foglie mi si impigliavano nei capelli e mi graffiavano la pelle di gambe e braccia.
Le grida si fecero più acute, più stridule e sentii la paura trasformarsi in panico.
Continuai a correre.
D'un tratto le grida si interruppero. E il vuoto che seguì fu più terribile delle urla.
Boyd continuò ad abbaiare freneticamente.
Sentii rivoli di sudore freddo colarmi sul viso.
Un attimo dopo vidi tre bambini rannicchiati dietro un'enorme siepe. Attraverso un buco del fogliame vidi le due bambine stringersi l'una all'altra e il bambino tenere una mano sulla spalla della ragazzina con la mantellina Bible Girl.
Il maschio e la bambina più piccola fissavano Boyd, con le faccine contorte in un misto di rapimento e di repulsione. Bible Girl aveva gli occhi chiusi, i pugni premuti sulle palpebre. Di tanto in tanto il suo petto si sollevava in un singhiozzo.
Boyd, in fondo alla siepe, continuava a balzare in avanti e ad arretrare, addentando qualcosa che si trovava a un metro circa dalla siepe. Ogni pochi secondi puntava il naso verso il cielo ed emetteva una serie di striduli latrati. Aveva il pelo dritto sul dorso, e ricordava un lupo fulvo.
«Tutto bene, bambini?» dissi loro, infilandomi nel buco della siepe.
Tre testoline annuirono solennemente.
Katy, Palmer e uno dei McCranie arrivarono di corsa dietro di me.
«Qualcuno è ferito?» domandò Katy ansimando.
Le tre testoline fecero di no, insieme a un piccolo singhiozzo.
Bible Girl corse da McCranie, gli cinse la vita con le braccia e gli si strinse contro. Lui le accarezzò la testa. E i codini.
«È tutto a posto, Sarah. Stai bene, vero?»
McCranie alzò lo sguardo.
«Mia figlia è un po' in tensione.»
Spostai la mia attenzione sul chow-chow.
E capii immediatamente che cosa stava succedendo.
«Boyd!»
Boyd iniziò a saltellare in giro. Quando vide me e Katy, balzò verso di noi e mi toccò la mano con il naso, poi schizzò di nuovo verso la siepe e riprese ciò che stava facendo.
«Basta!» gridai, piegata in avanti per riprendere fiato.
Quando Boyd non è convinto della validità dell'ordine che gli viene impartito, ruota i lunghi peli che formano le sue sopracciglia. È un modo per dire: «Sei scema?».
Boyd si voltò e mi fece il suo giochino.
«Boyd, seduto!»
Boyd si girò e riprese ad abbaiare.
Le braccia di Sarah McCranie si strinsero più forte intorno al papà. I suoi compagni di gioco mi guardarono con gli occhi spalancati.
Ripetei il mio comando.
Boyd voltò la testa e rifece il giochino delle sopracciglia, questa volta per dire: «Oh, ma sei uscita completamente di testa?».
«Boyd!» Senza sollevare la schiena, gli puntai l'indice verso il muso.
Boyd inclinò la testa, soffiò un po' d'aria con il naso e si mise seduto.
«Che gli succede?» Katy ansimava almeno quanto me.
«Lo stupidone probabilmente crede di aver scoperto la colonia perduta di Roanoke.»
Boyd si voltò verso la siepe, appiattì le orecchie e produsse un lungo e basso brontolio dal centro del petto.
«Cosa?»
Ignorai la domanda di mia figlia e mi feci largo tra sterpi e radici. Quando mi avvicinai, Boyd scattò sulle zampe e mi guardò pieno di aspettativa.
«Seduto!»
Boyd ubbidì.
Mi accucciai accanto a lui.
Boyd di nuovo schizzò sulle zampe, la coda dritta e tremante.
Mi sentii saltare il cuore nel petto.
Il bottino di Boyd era molto più consistente di quanto mi aspettassi. Il suo ultimo colpo era stato uno scoiattolo, morto forse da due o tre giorni.
Guardai il cane. Lui mi restituì lo sguardo, e la grande quantità di bianco visibile in ciascun occhio mi indicò la sua agitazione.
Mi concentrai su ciò che avevo ai miei piedi, e iniziai a condividere la sua apprensione. Raccolsi uno stecco e lo premetti nel centro. La plastica si lacerò e un tanfo di carne avariata si alzò dalle foglie, insieme a un nugolo di mosche dal corpo iridescente.
Boyd, il cane da cadavere autodidatta, aveva colpito ancora.
«Merda.»
«Cosa?»
Sentii uno scricchiolio e mi resi conto che Katy si stava avvicinando.
«Che cosa ha trovato?» Mia figlia si chinò accanto a me, ma subito schizzò in piedi portandosi una mano alla bocca. Boyd intanto le danzava tra le gambe.
«Che diavolo è?»
Palmer ci raggiunse.
«Roba morta.» Dopo quell'acuta osservazione, Palmer si strinse le narici tra pollice e medio. «Umano?»
«Non sono sicura.» Indicai le dita semicoperte di carne che spuntavano da un buco che Boyd aveva creato nella plastica. «Sicuramente non è un cane, né un cervo.»
Cercai di capire le dimensioni del sacco semisepolto. «Non ci sono molti animali di questa grandezza.»
Raschiai via terra e fogliame ed esaminai il terreno circostante.
«Nessuna traccia di pelliccia.»
Boyd si avvicinò per dare un'annusata. Lo spinsi indietro con un gomito.
«Porca miseria, mamma. Non durante un picnic.»
«Ehi, non sono certo venuta qui per trovare una cosa simile» replicai, indicando il bottino di Boyd.
«Hai intenzione di fare la tua parte di medico legale fino in fondo?»
«Potrebbe non essere nulla. Ma nell'ipotesi che invece sia qualcosa, i resti devono essere recuperati in modo appropriato.»
Katy si lasciò sfuggire un gemito.
«Ascolta, Katy. Questa storia non piace a me come non piace a te. Anche perché lunedì dovrei andare al mare.»
«È tutto così imbarazzante. Ma perché non puoi essere come tutte le altre madri? Perché tu non puoi semplicemente...» guardò Palmer, poi di nuovo me «... pensare a fare i biscotti?»
«Preferisco i fichi Newtons» replicai secca, mentre mi alzavo in piedi.
«Sarebbe meglio riportare a casa i bambini» dissi al padre di Sarah.
«No!» gridò il maschietto. «Là sotto c'è un morto, vero? Vogliamo vederti tirare fuori il cadavere.» Aveva la faccia rossa e lucida di sudore. «Vogliamo sapere chi viene incriminato per il delitto.»
«Sì!» La bambina più piccola sembrava una Shirley Temple in salopette rosa. «Vogliamo vedere il cadavere!»
Maledicendo dentro di me i telefilm polizieschi, scelsi accuratamente le parole da dire.
«Sarebbe molto più utile alla soluzione del caso se cercaste di raccogliere le idee, vi scambiaste le vostre osservazioni e poi rilasciaste una deposizione. Pensate di poterlo fare?»
I due si guardarono a occhi spalancati.
«Ma certo» disse Shirley Temple battendo le mani paffute. «Faremo delle bellissime deposizioni.»
Il furgone della Scientifica arrivò alle quattro. Joe Hawkins, il funzionario dell'Istituto di medicina legale reperibile durante quel fine settimana, seguì dopo qualche minuto. A quel punto, gran parte degli ospiti dei McCranie avevano ritirato le loro coperte ed erano andati via.
Compresi Katy, Palmer e Boyd.
La scoperta di Boyd si trovava oltre la siepe che separava la proprietà dei McCranie dalla fattoria confinante. Secondo il padre di Sarah, la casa vicina non era abitata e apparteneva a qualcuno di nome Foote. Una rapida verifica non produsse alcuna risposta, sicché trasportammo le attrezzature utilizzando il vialetto e il cortile della casa.
Spiegai la situazione a Hawkins, mentre due tecnici della Scientifica scaricavano apparecchiature fotografiche, pale, setacci, e altri attrezzi di cui avevano bisogno per il recupero.
«Potrebbe essere la carcassa di un animale» dissi, sentendomi in colpa per aver costretto delle persone a lavorare di sabato pomeriggio.
«O magari la moglie di qualcuno con la testa aperta in due da un'ascia.» Hawkins prese un sacco mortuario dal suo furgoncino. «Ma fare pronostici non è il nostro lavoro.»
Joe Hawkins si occupava di cadaveri da quando Joe Di Maggio e Marilyn Monroe si erano sposati, nel '54, e aveva quasi l'età della pensione obbligatoria. Perciò, storie da raccontare ne aveva. All'epoca, le autopsie venivano eseguite nel seminterrato del carcere, in una sala attrezzata con poco più di un lavandino e di un tavolo anatomico. Quando negli anni Ottanta, il North Carolina riformò il servizio di medicina legale, e la struttura dell'Istituto di medicina legale fu trasferita nella sede attuale, Hawkins si portò solo un ricordo: un ritratto autografato di Joe Di Maggio. E la fotografia era ancora sulla scrivania del suo cubicolo.
«Ma se troviamo qualcosa di molto brutto, la telefonata al dottor Larabee la fai tu, d'accordo?»
«D'accordo» dissi.
Hawkins chiuse la doppia portiera del furgoncino. Non potei fare a meno di pensare a come il lavoro aveva modellato la fisionomia di quell'uomo. Sottile come un cadavere, con grandi aloni scuri intorno agli occhi gonfi, le sopracciglia foltissime e i capelli neri tinti pettinati all'indietro, Hawkins sembrava un medico legale di prima scelta.
«Pensate che avremo bisogno delle luci?» domandò uno dei tecnici, una donna sui venticinque anni con la pelle a macchie e occhiali da nonnina.
«Vediamo come procedono le cose.»
«Tutto pronto?»
Guardai Hawkins, lui annuì.
«Allora andiamo» disse Occhiali della Nonna.
Guidai la squadra nel bosco, e per due ore eseguimmo nell'ordine stabilito tutte le operazioni previste dal protocollo di medicina legale: fotografare, ripulire, insaccare, etichettare.
Non si muoveva una foglia. I capelli mi si erano appiccicati al collo e alla fronte, e sotto la tuta in tyvek che Hawkins mi aveva portato i miei vestiti erano zuppi di sudore. Nonostante il massiccio ricorso al prodotto repellente contro gli insetti di Hawkins, le zanzare banchettarono su ogni millimetro di pelle scoperta.
Alle cinque avevamo un'idea abbastanza chiara di che cosa avevamo di fronte.
Un grosso sacco nero per l'immondizia era stato abbandonato in una buca poco profonda e poi ricoperto con uno strato di terra e di foglie. Con il sacco così vicino alla superficie del terreno, gli agenti atmosferici avevano fatto il loro dovere, finendo per scoprire un angolo di plastica. E Boyd aveva completato l'opera.
Sotto il primo sacco, ne scoprimmo un secondo. Li lasciammo entrambi chiusi, ma dai buchi e dagli strappi presenti sulla plastica filtrava un odore inconfondibile. Era il tanfo dolciastro e pungente della carne in decomposizione.
Il fatto che i resti sembravano limitarsi a quelli contenuti nei sacchi accelerò le operazioni di recupero. Alle sei avevamo recuperato i due reperti, li avevamo sigillati nei sacchi mortuari e sistemati sul furgone dell'Istituto di medicina legale. Dopo essersi assicurato che Occhiali della Nonna, il suo collega e io potessimo procedere con le operazioni finali, Hawkins partì alla volta dell'obitorio.
Un'ora di setacciamento del terreno circostante e sottostante non produsse alcun risultato.
Alle sette e mezzo caricammo l'attrezzatura sul furgone e tornammo in città.
Alle nove ero già sotto la doccia, esausta, scoraggiata, e pentita di non aver scelto un'altra professione.
Proprio quando pensavo di essere ormai in pari con tutti gli arretrati del mio lavoro, due sacchi da cinquanta litri ciascuno erano entrati nella mia vita.
Accidenti!
E un chow-chow di trentacinque chili.
Accidenti!
Feci il terzo shampoo e pensai alla giornata che mi aspettava e al mio visitatore. Sarei riuscita a fare i bagagli prima di andare a prenderlo all'aeroporto?
Rividi la sua faccia e il mio stomaco ebbe un sussulto.
Oh, santo cielo.
Chissà se quell'appuntamento era davvero una buona idea. Non lo vedevo da quando avevamo lavorato insieme, in Guatemala. All'epoca una vacanza era sembrata un bel progetto: avevamo vissuto entrambi condizioni di lavoro estreme. E poi il luogo. Le circostanze. La tristezza di doversi occupare di così tanti morti.
Mi sciacquai i capelli.
Ma la vacanza non c'era stata. Il caso era stato risolto. Stavamo rientrando alle rispettive case. Prima che raggiungessimo l'aeroporto La Aurora International, il suo cellulare aveva trillato. E lui aveva risposto, dispiaciuto, ma obbediente alla chiamata del dovere.
Ripensai alla faccia di Katy, durante il picnic, quel pomeriggio, e poi davanti alla scoperta di Boyd. Mia figlia aveva realmente intenzioni serie con l'accattivante Palmer Cousins? Stava forse pensando di lasciare l'università per stare più vicina a lui? O per altre ragioni?
Che cosa c'era in Palmer Cousins che mi infastidiva? «Il ragazzo», come lo avrebbe chiamato Katy, per caso era semplicemente troppo bello per piacermi? Stavo forse diventando così ottusa che iniziavo a giudicare le persone dalle apparenze?
Comunque, Cousins non aveva nessuna importanza. Katy ormai era adulta, e poteva fare quello che voleva. Io non avevo più nessun controllo sulla sua vita.
Mi insaponai con una schiuma mandorle-menta e tornai a preoccuparmi per i sacchi di Boyd.
Con un po' di fortuna, potevano contenere ossa di animali. Ma se non fosse stato così? Se l'ipotesi dell'ascia di Joe Hawkins non fosse stata solo una battuta?
L'acqua si intiepidì in un attimo, e diventò fredda. Saltai fuori dalla doccia, mi coprii con un asciugamano, con un altro mi avvolsi i capelli, e andai a dormire.
Le cose si sistemeranno, mi dissi.
Sbagliato.
Le cose sarebbero peggiorate ancora prima che potessimo rendercene conto.
5
Domenica mattina. Ora: sette e trentasette. Temperatura: ventiquattro gradi. Umidità: ottantuno per cento.
Eravamo candidati a polverizzare un record. Diciassette giorni ininterrotti con la temperatura superiore a trentadue gradi.
Entrai nel piccolo vestibolo dell'Istituto di medicina legale utilizzando la mia tessera magnetica e passai davanti alla postazione della signora Flowers, un luogo che ispirava rispetto anche in sua assenza. Tutti gli oggetti e i Post-it erano perfettamente ordinati; le pile di fogli perfettamente impilati senza nessun margine sporgente. Niente penne. Niente graffette sparse. Niente disordine. Solo una fotografia personale, un cocker spaniel.
Dal lunedì al venerdì, la signora Flowers filtrava i visitatori attraverso il pannello di vetro sopra la sua scrivania, premiando i più premendo un pulsante che li ammetteva oltre la porta interna, e respingendo i meno fortunati. Era lei inoltre che ricopiava i verbali e le consulenze, che organizzava la documentazione, e archiviava ogni frammento di carta nei classificatori neri allineati su un lato del suo ufficio.
Superai i cubicoli dei medici legali e controllai la lavagna dove quotidianamente venivano elencati a pennarello nero i casi su cui lavorare.
Il ritrovamento di Boyd era già lì, provvisto di numero di catalogazione. MCME 437-02.
Il luogo era esattamente come prevedevo, deserto e innaturalmente silenzioso.
Ciò che non avevo previsto era il caffè appena fatto sul piano di lavoro del nostro piccolo angolo ristoro. Esiste un Dio misericordioso, pensai, servendomi.
O forse un misericordioso Joe Hawkins.
Il medico legale comparve mentre stavo aprendo il mio ufficio.
«Sei un santo» dissi, indicando la mia tazza di caffè.
«Ho pensato che saresti arrivata presto.»
Nel corso delle operazioni di recupero, avevo parlato a Hawkins della mia vacanzina al mare.
«Ti porto il bottino di ieri?»
«Grazie. E anche la Polaroid e la Nikon.»
«Radiografie?»
«Sì.»
«La sala più grande o quella antipuzza?»
«È meglio se lavoro in quella piccola.»
L'Istituto di medicina legale dispone di due sale autopsia, ciascuna con un tavolo anatomico. La più piccola ha uno speciale impianto di aerazione per assorbire il fetore dei casi peggiori.
Decomposti e marci. Questi in genere i casi di cui mi occupo io.
Presi un modulo dal piccolo scaffale dietro la mia scrivania, inserii il numero del caso e scrissi una breve descrizione dei resti e delle circostanze del ritrovamento. Poi andai nello spogliatoio, mi infilai il camice verde e passai nella sala piccola.
I sacchi mi stavano aspettando. Insieme alle macchine fotografiche e agli oggetti necessari ad accessoriare la mia tenuta: grembiule di carta, mascherina, occhialini di plastica, guanti di lattice.
Iniziai a raccogliere immagini a trentacinque millimetri, e altre di supporto con la Polaroid, poi chiesi a Hawkins di passare ai raggi X entrambi i sacchi. Non volevo sorprese.
Venti minuti dopo, Hawkins mi riportò i sacchi su un carrello e sistemò cinque o sei lastre su un diafanoscopio. Studiammo i grigi che spiccavano sul grigio più scuro.
Ossa miste a terriccio ghiaioso. Niente di denso od opaco.
«Niente metallo» disse Hawkins.
«Bene» risposi.
«Niente denti» osservò Hawkins.
«Questo non va bene» risposi io.
«Niente cranio.»
«No» concordai.
Dopo aver indossato grembiule e guanti, ma non gli occhialini, sciolsi il nodo e svuotai il primo sacco sul tavolo.
«Per la miseria. Davvero un bel tesoro.»
In tutto, c'erano otto mani e piedi parzialmente ricoperti di carne, tutti mozzati. Li posai in una vaschetta di plastica e li mandai ai raggi X. Hawkins li portò via, scuotendo la testa e ripetendo il suo commento.
«Per la miseria.»
Lentamente, allargai sul tavolo anatomico le ossa. Alcune erano del tutto prive di tessuto molle. Altre erano tenute insieme da tendini e muscoli corificati. Altre ancora conservavano residui di carne in decomposizione.
A un certo punto del tardo Cenozoico, circa sette milioni di anni fa, una linea di primati aveva iniziato a sperimentare la posizione eretta. Il cambiamento di locomozione richiedeva alcuni aggiustamenti anatomici, ma nel giro di qualche era ogni imperfezione era stata eliminata. Nel Pliocene, più o meno due milioni di anni fa, gli ominidi scorrazzavano già in giro in attesa di qualcuno che inventasse i birkenstock.
Ma diventare bipedi ovviamente comportava qualche effetto collaterale. Dolori alla parte inferiore della schiena, per esempio. Difficoltà nel parto. Perdita dell'alluce prensile. Ma, tutto considerato, il passaggio alla posizione eretta era stato un successo. Quando l'Homo erectus vagava in cerca dei suoi mammut, approssimativamente un milione di anni fa, i nostri antenati avevano già la colonna vertebrale a S, bacino corto e ampio, testa ben eretta sul collo.
Le ossa che stavo esaminando non rientravano in questa descrizione. Le ali iliache erano strette e verticali, le vertebre grosse con processi spinosi arcuati. Le ossa degli arti erano corte, spesse e di forma diversa da quella umana.
Tirai un sospiro di sollievo.
Le vittime nel sacco camminavano a quattro zampe.
Capita spesso che le ossa che arrivano a me come «sospette» siano ossa di animali. Alcune sono rimasugli dei picnic domenicali. Vitello. Maiale. Agnello. Tacchino. Altre resti della stagione di caccia dell'anno precedente. Cervi. Alci. Anatre. Alcune appartengono ad animali da cortile o domestici. Felix. Fido. Nerina. Bianchina.
Il bottino di Boyd non rientrava in nessuna di queste categorie.
Iniziai l'analisi. Omero destro. Omero sinistro. Tibia destra. Tibia sinistra. Coste. Vertebre. Avevo quasi finito, quando Hawkins entrò con le radiografie.
Una sola occhiata bastò a confermare i miei sospetti.
Anche se le «mani» e i «piedi» avevano un aspetto sinistramente umano, le differenze scheletriche erano evidenti. Scafoidi e semilunari fusi nelle mani. Estremità profondamente scanalate sui metatarsali e sulle falangi dei piedi. Dimensioni crescenti delle dita dall'interno verso l'esterno.
Indicai l'ultima caratteristica.
«Nel piede umano, il secondo metatarsale è il più lungo. Nella mano umana, il più lungo è il secondo o il terzo metacarpale. Negli orsi, invece, il dito più lungo è il quarto, sia nelle zampe anteriori sia in quelle posteriori.»
«Si direbbe che sono girati al contrario.»
Indicai i brandelli di tessuto molle sulle piante del piede.
«Il piede umano sarebbe più arcuato.»
«Quindi, di che cosa si tratta?»
«Orso.»
«Orso?»
«Orsi, veramente. Ci sono almeno tre femori sinistri. Questo significa un minimo di tre individui.»
«E gli artigli dove sono?»
«Niente artigli, niente falangi distali, niente pelo. Questo significa che gli orsi erano stati scuoiati.»
Hawkins rifletté per qualche secondo.
«E le teste?»
«Ne so quanto te.»
Spensi il diafanoscopio e tornai al tavolo anatomico.
«La caccia all'orso è legale, in questo Stato?» domandò Hawkins.
Lo guardai da dietro la mascherina.
«Ne so quanto te.»
Ci vollero un paio d'ore per esaminare, inventariare e fotografare il contenuto del primo sacco.
Conclusione: il sacco numero uno conteneva i resti parziali di tre Ursus americanus, cioè di tre orsi neri americani, detti anche baribal. Avevo identificato la specie di appartenenza consultando il manuale del Gilbert, Mammalian Osteology, e quello di Olsen, Mammal Remains from Archaeological Sites. Si trattava di due adulti e di un esemplare giovane. Teste, artigli, falangi distali, denti o tegumento esterno non erano presenti. Nessun indicatore della causa di morte. Le lesioni da taglio suggerivano scuoiamento con una lama bitagliente, liscia, probabilmente un coltello da caccia.
Prima di passare al secondo sacco, feci una pausa e telefonai alla US Airways.
Ovviamente il volo era perfettamente in orario. Le compagnie aeree spaccavano il nanosecondo, quando un passeggero o la persona che doveva andare a prenderlo erano in ritardo.
Guardai l'ora. Le undici e venti. Se il sacco numero due non avesse contenuto sorprese, forse avrei potuto ancora arrivare all'aeroporto in tempo.
Aprii una lattina di Diet Coke e presi una barretta al muesli da una scatola che tenevo in un pensile della nostra saletta. Mentre sgranocchiavo, studiai il quacchero dell'etichetta, che mi guardava con un sorriso molto, molto cordiale. Niente poteva andare storto, dopo un sorriso così, giusto?